L’uomo primitivo vedeva a colori o in bianco e nero?
Certamente vedeva in bianco e nero, come vedono attualmente gli animali e come vedono i bambini nel primo mese di vita.
Quando il progenitore dell’Homo Erectus conduceva vita arboricola e la foresta era il suo habitat, quando la sua stazione era ancora prona ed il suo olfatto era molto sviluppato, non aveva bisogno della visione a colori.
A lui bastava distinguere il chiaro dallo scuro, il giorno dalla notte, la luce dalle tenebre.
Per le altre informazioni, necessarie alla sua sopravvivenza, l’olfatto lo guidava in modo molto più sicuro e preciso.
Ancora oggi il cane conosce, si eccita sessualmente, cataloga e ricorda le persone e gli oggetti in base all’olfatto.
Data la sua stazione prona, la visione a colori servirebbe a ben poco, visto che le stesse informazioni le può ricavare dagli odori, dalla figura, dal movimento dell’oggetto.
E’ solo quando l’Australopiteco (la scimmia-uomo vissuta circa un milione di anni fa) vuole uscire dalla foresta che sorge la necessità della visione a colori.
L’olfatto non arriva così lontano come le necessità di difesa richiedono; anche la visione in bianco e nero, la figura e il movimento non sono più sufficienti a far distinguere in lontananza un erbivoro da un carnivoro.
Quindi la necessità di difendersi e di procurarsi il cibo consolida la stazione eretta e acuisce la vista, che gradualmente comincia a distinguere il blu dal giallo, il rosso dal verde, e poi tutti gli altri colori.
Nella sua retina avvengono piano piano delle trasformazioni: accanto ai bastoncelli (per la visione in bianco e nero) sorgono sempre più numerosi i coni (per la visione a colori).
Contemporaneamente la corteccia cerebrale si va sviluppando e nel giro di un milione di anni (dall’Australopiteco – 1.200.000 anni fa, al Pitecantropo – 500.000 anni fa, all’Homo Sapiens – 80.000 anni fa) la capacità cranica degli ominidi si accresce fino a triplicarsi.
A questo punto sono nati i colori.